[2021-08-11]
Lettura per l'estate: pro e contro “My Octopus Teacher” di P. Ehrlich e J. Reed
Il film di Ehrlich e Reed ha avuto grande successo, contribuendo fra l’altro a rendere sempre più popolare il genere documentario in ampi segmenti di pubblico fino ad oggi poco ricettivi. "Ma è ancora documentario?” si è chiesto sulla sua pagina FB Lorenzo Hendel, regista, critico e per tanti anni commissioning editor RAI di Doc3.
Visto che l’interrogativo ha fondamento ed il dibattito sull’identità ed i confini del genere fa bene tutti, gli abbiamo chiesto di poter pubblicare il suo intervento sulla nostra newletter, sollecitando un analogo ed opposto intervento a un “octopus-entusiasta”, Pinangelo Marino, critico, docente di cinema e vicepresidente di DOC/IT.
Ci auguriamo che lo scambio che segue, i cui autori ringraziamo, non esaurisca ma anzi imposti la dialettica per i tempi che ci attendono, dove commistione e l’ibridazione di generi invitano ad una continua revisione teorica e pratica del fare documentario.
Ma è veramente un documentario?
Il film “My Octopus Teacher” ha recentemente vinto l’Oscar per il miglior documentario.
Si tratta certamente di un film straordinario, girato e soprattutto montato con una capacità di fascinazione che raramente è dato di vedere, con una storia al tempo stesso originale e imprevedibile, ma anche chiara ed essenziale come una fiaba. E proprio nell’immaginario delle fiabe pesca molto del suo fascino, l’amore umano che sconfina nel mondo animale, travalicando barriere usanze e
consuetudini.
È proprio questa la sua originalità, che non si apprezza restando nel campo dell’immaginazione e della fantasy (dove questo è un motivo assai ricorrente), ma ripropone questa versione dell’amore uomo/animale nella formula assai più coinvolgente del documentario. Il documentario non racconta fantasie e immaginazioni, ma racconta la realtà, e questo spiega molto della sua crescente popolarità. Il documentario non presenta racconti“tratti da storie vere”, come si legge spesso nei poster dei film di finzione, ma SONO storie vere,
quindi con un potenziale emozionale e di coinvolgimento molto maggiore.
Quindi My Octopus Teacher presenta in forma di realtà il sogno antico dell’amore tra uomo e animale, che è così possibile vivere come una realtà e non come una fantasia. Ma è veramente un documentario?
La domanda potrebbe sembrare superflua ed anche fastidiosa per la maggior parte dei suoi spettatori. “Beh, io mi sono emozionato tantissimo, la storia è chiaramente vera ed ho pianto per tutto il film, non mi interessano i bizantinismi dei soliti critici addetti ai lavori!”. Oppure: “Perchè mettere steccati tra le forme espressive? Esistono i bei film e i brutti film, non ha importanza che siano documentari o finzione”. Non sto citando frasi ascoltate esattamente in questi termini, ma molte persone con cui ho parlato hanno espresso tra le righe un atteggiamento simile.
Io invece credo che la domanda sia legittima, e per un motivo molto semplice, che mi riguarda personalmente: esiste da anni una consistente (anche se minoritaria) componente di persone che il cinema lo fanno, o lo sostengono, o lo guardano con passione, che investono il documentario di una sorta di missione storica, quella di ritrovare nella realtà il fascino delle storie, e di tornare alla realtà per capire la complessità del mondo moderno. Dico tornare alla realtà, perché dalla realtà ci stiamo ormai continuamente disconnettendo. Una realtà simulata e costruita nelle migliaia di “fake news”, alterata e manipolata per dimostrare teorie preconcette, sepolta e violentata da pregiudizi senza fine. La nostra percezione del mondo è intrisa da filtri di ogni genere, che relegano la realtà in una sorta di “optional” residuale e superfluo. Il documentario in questo senso rappresenta una sfida, che coinvolge prima di tutto il documentarista, che porta sulle sue spalle la grande responsabilità di combinare due urgenze, che sembrano in contraddizione: uno, alimentarsi dalla realtà in modo spregiudicato e aperto, senza costruzioni aniticipate, ma al
tempo stesso, due, riuscire ad affascinare lo spettatore dando alla realtà la forma di una storia.
La vicenda produttiva del film My Octopus Teacher risponde perfettamente alla seconda urgenza, ma assolutamente non alla prima, e ci sono così tante evidenze di questo che è anche difficile elencarle tutte nel breve spazio di un articolo.
- La storia prevede che Craig ha effettuato un gran numero di immersioni da solo, mentre fin dal primo giorno ci sono continue inquadrature che lo
ritraggono mentre si immerge, quindi qualcuno lo sta riprendendo.
- Ogni volta che vediamo le immagini della piovra girate da Craig “in soggettiva”, quando poi c’è uno stacco “in oggettiva”, girato da qualcuno che era con lui, avremmo dovuto vedere Craig con la telecamera in mano, invece non ce l’ha.
- Nella scena, che è uno dei punti “clou” del film, in cui la piovra per la prima volta si appoggia alla sua mano, innescando l’avvo di questa grande “amicizia”, si vede Craig che nuota senza muta (dice che non ha mai messo la muta in tutto il film) e ovviamente senza macchina da presa, poi si passa a una soggettiva dove appare la sua mano, coperta in parte dalla piovra, e si vede chiaramente che il polso è avvolto da una muta, e si nota anche che l’orologio non è quello che aveva Craig nella inquadratura precedente).
- Ancora, nelle note di produzione che la moglie di Craig ha scritto a nome della società che ha prodotto il film si afferma, parlando dei problemi tecnici del montaggio, che “con così tante telecamere e così tanti formati in una libreria di filmati raccolti in quasi 10 anni, il team era preoccupato. Come si potranno rendere compatibili i colori di tutte queste diverse fotocamere?” Ma la storia raccontava un uomo, Craig, che aveva girato da solo, e tutto questo nel corso di un anno, perché la piovrà vive mediamente un anno e mezzo, e lui l’aveva incontrata che era già adulta. Allora, come mai si parla di dieci anni di ripresa e di così tante telecamere? Le risposte sono evidenti, e non c’è neanche bisogno
di elencare le altre decine di prove che ad una visione appena più approfondita balzano subito agli occhi. È chiaro che il film è stato girato in tanti anni,utilizzando come “personaggio piovra” tante piovre diverse, nel corso degli anni.
Questo ovviamente demolisce l’assunto principale della storia, ossia l’amore individuale tra Craig e quella piovra.
Ripeto, questo potrebbe non essere un problema. Il film emoziona, commuove, io stesso ho provato una commozione enorme guardandolo. Ma proprio per le precisazioni fatte sopra, proprio per le aspettative che il documentario sta creando nel mondo contemporanea nell’accettare la “sfida della realtà”, proprio per questo trovo essenziale, e come me molti “millitanti” del documentario, mantenere fissi dei paletti e dei chiari confini costitutivi.
Cosa definisce l’identità del documentario? Non l’oggetto del racconto, non la forma della storia e la forza dei personaggi, non la verità del prodotto ma la verità della sua produzione. Un documentario racconta ciò che avviene davvero in modo imprevisto, in una incessante opera che coglie gli eventi con una macchina da presa, e al tempostesso cerca di dare ad essi una forma narrativa, ma senza modificarne la natura, e senza alterarne la linea del tempo reale. Una volta Hitchcock dette una interpretazione geniale della linea di demarcazione tra Finzione e Documentario: “Nella finzione il regista è Dio. Nel documentario Dio è il regista”. Il documentarista può “immaginare in anticipo”, secondo assi narrativi a geometria variabile e soggetti a continua verifica, ma non può mai “sapere in anticipo”. Come si dice con una formula proverbiale (che
non ha ovviamente niente di religioso), e come dice Hitchcock, “Dio solo lo sa”, il documentarista insegue la realtà, ma senza nessun potere di metterla in scena in anticipo. Ed è proprio per questo, come ho scritto sopra, che il documentario può essere oggi una finestra su una realtà “indocile” e non sottoponibile a nessuna forma di ideologia, di pregiudizio, di idee preconcette.
Questo ne definisce la natura critica e rivelatrice, essenziale nella società contemporanea.
Eppure, scorrendo le tante critiche espresse da coloro che hanno recensito “My Octopus Teacher” si fa davvero fatica a scorgere una pur minima perplessità sulla sua reale natura di documentario. Ognuno vive (giustamente) l’incanto e il fascino della storia, ma non facendo nessuna differenza tra la forma documentaria e la forma finzionale. E questa è davvero la cosa che trovo preoccupante, e fonte di amarezza. E’ come se ormai si desse per scontata questa equiparazione, tutto ciò che è cinema non può che essere ricostruito,
nella forma del “set”. Se si tratta di un documentario, si dice, l’importante è che la storia sia plausibile, e magari il personaggio che la interpreta sia lo stesso che l’ha vissuta nella realtà (in altri termini, che non sia un attore). Poi tutto può essere scritto in precedenza con una sceneggiatura, oppure tutto può essere inventato con immagini riprese “ad hoc” e preparate e costruite a tavolino, va bene lo stesso. Questo però significa che il documentario abdica a se stesso, rinnega se stesso. Potremmo addirittura dire che per questa via il documentario diventa un genere del cinema di finzione.
My Octopus Teacher è e rimane uno splendido film interamente di finzione, lo potremmo godere in questa forma. Se lo chiamiamo documentario forse facciamo un bene a quel film, ma al tempo stesso chiediamo al documentario di rinunciare a se stesso.
Lorenzo Hendel
Il documentario nel sistema del mainstream
L'occasione che può offrire il dibattere sul film My Octopus Teacher, premiato nel 2021 con un Oscar al Miglior Documentario e ora disponibile su Netflix, è propizia per provare ad allargare, aggiornare e strutturare una riflessione sulla forma, o le forme, del documentario contemporaneo. L'Associazione Doc/it ritiene dunque opportuno dare seguito al confronto scaturito dalla riflessione di
Lorenzo Hendel, pubblicata in data 22 luglio.
La pura osservazione del fenomeno ci porterebbe a dire, in una battuta, che oggi non si può più parlare di documentario, ma solo di documentari, tante forme quanti sono i film, costringendoci a misurarci con ancora più urgenza con la domanda posta: che cosa definisce l'identità del documentario? Potremmo qui meglio precisare: e quindi, che cosa definisce oggi (oppure: ancora) l'identità del documentario? Esulano da questo brevissimo intervento il film saggio e un certo tipo di documentario di creazione, la cui trattazione in questa sede ci allontanerebbe troppo dal punto che intendiamo mettere a fuoco velocemente. Oggetto della nostra osservazione è quel documentario che si sta
affermando nel sistema del mainstream.
Si può dire che negli ultimi decenni, sicuramente per il documentario osservativo, narrativo, partecipativo ma non solo, lo sviluppo tecnologico ha
reso i processi creativi dei film sempre più ricchi di dimensioni e di spunti per un accesso anche teorico alle opere filmiche. Sono nate riviste di settore specificamente dedicate ai processi di creazione, mentre i festival specializzati hanno destinato spazi sempre più ampi proprio alla esplorazione di questi processi, unici, sempre più personali, sempre più intimi. L'artefice del film, osservatore, interprete o agente che fosse, tecnologicamente equipaggiato è stato raccontato come colui che è parte di un continuum il cui evolvere non dipende solo dalle sue scelte. Così, l'attesa del momento “giusto” per filmare un dialogo, il primo incontro più o meno casuale con il protagonista, il primo, improvvisato sopralluogo fatto con una telecamera di fortuna o con lo smartphone, un momento di smarrimento, una sospensione dei lavori, un imprevisto, perfino il sopraggiungere di una pandemia durante la produzione, ecc. sono diventati, programmaticamente, gli elementi costitutivi della forma
finale del film. Questo apparire del reale si è tradotto, quasi sempre, nel 'dispositivo' del film stesso. Quasi come in una proiezione ortogonale lo
schermo ha assunto la funzione di un piano verticale che recepisce e custodisce le geometrie della creazione, gli avvenimenti del piano “orizzontale” sul quale si sviluppa il rapporto tra l'artefice del film e il resto del mondo.
L'artefice così configurato gode di una libertà creativa molto ridotta, nella misura in cui non può fare ciò che vuole, ma solo ciò che può. Il farsi del film è inscritto in un processo che si autodetermina e che l'artefice solo in parte guida. Questo cambio di prospettiva ha elevato il documentario a discorso più complesso sui processi del reale, lasciando sullo sfondo l'idea che lo voleva mero strumento funzionale alla esposizione di fatti e accadimenti. Negli ultimi decenni, e con maggiore sistematicità dagli inizi degli anni Duemila, si è assistito inoltre a un ulteriore, interessantissimo fenomeno. Si è profondamente trasformato l'approccio all'utilizzo del materiale d'archivio, lavorato non più per contestualizzare un episodio nella storia, ma spesso per mappare una procedura ricognitiva dell'artefice, al quale sempre più frequentemente capita di dover problematizzare il suo stesso ruolo e il suo vissuto.
Chiunque sia abituato a frequentare i festival di settore sa anche che da anni si producono film documentari fatti totalmente con elementi finzionali. Elementi che sono accettati perché appartengono a quel continuum di cui sopra tanto quanto qualsiasi altro elemento che si definisce “reale”. Per certi versi, infatti, My Octopus Teacher rappresenta la preistoria del documentario contemporaneo.
Tuttavia ci interessa eccome parlarne, proprio perché si impone nel sistema del mainstream come forma documentaria complessa. Non solo perché racconta una storia “che emoziona”, come si è detto, fingendo di partire da una osservazione pura della realtà, ma perché anch'esso, nonostante ciò, altro non può fare che offrire un possibile punto d'accesso a una realtà, così come in fondo ogni documentario fa. Il film poggia da una parte sul codice rassicurante del classico documentario naturalistico televisivo e dall'altra sull'invenzione
fiabesca, certamente. Ma a un occhio più avveduto, così come è stato già rilevato altrove, il film rivela tutta la difficoltà di farsi film che compare solo alla fine di un processo di creazione e di un tempo di attesa molto lunghi e complessi.
È assai sorprendente come un certo tipo di documentario di creazione stia determinando, in questi ultimissimi anni, una significativa presenza del
“genere” all'interno dei complessi ecosistemi dei broadcaster e delle piattaforme digitali internazionali. Come associazione di categoria attenta
anche alle istanze del mercato, Doc/it registra un crescente interesse degli OTT verso quei prodotti che nascono da un tipo di approccio creativo non codificato, personale, in altri tempi di sarebbe detto d'autore. Certo si tratta per ora di registrare una tendenza, che però ci consente di procedere in una riflessione sulla forma del documentario contemporaneo, o le forme, come dicevamo sopra, che tenga conto delle profonde trasformazioni che sono in atto. Gli OTT producono e programmano sempre di più serie documentarie costruite su strutture narrative complesse. Insistono su un utilizzo non strumentale dei materiali d'archivio, soprattutto quelli privati. Insomma si direbbe che il documentario, nella trasformazione totale del modo di fruire il cinema, stia dimostrando di possedere la capacità di evolvere rapidamente e molto più del
cinema di finzione: senza tuttavia perdere la sua identità?
Doc/it è impegnata, tra l'altro, nella creazione di spazi dedicati sia all'alta formazione che all'attività industry, dove si cerca anche di intercettare e
analizzare l'evoluzione dei processi creativi e produttivi del documentario contemporaneo. L'Associazione ha interesse però che si sviluppi anche un serio confronto sull'identità del documentario, proprio perché non ci può essere sviluppo produttivo senza il sostegno di visioni e convinzioni, anche contrastanti, che stimolino la creazione e controbilancino il peso delle sfide poste dagli OTT.
Da quanto leggiamo nelle note di produzione di My Octopus Teacher, che non possiamo qui riportare interamente ma a cui rimandiamo per una ricostruzione più approfondita e appassionante del processo creativo del film, l'idea di lavorare sull'incontro tra l'uomo e la piovra è venuta in un momento successivo rispetto a quello dell'inizio delle riprese. Risale al periodo in cui Craig, il protagonista, aveva deciso di immergersi da solo tutti i giorni dopo anni di riprese subacquee svolte anche in gruppo, durante i quali aveva imparato a tracciare quella foresta marina abitata da esseri che difficilmente si lasciano scoprire. L'idea di lavorare sull'incontro con una piovra è arrivata dunque in una fase molto avanzata di un processo più grande, che peraltro Craig aveva negli anni fortemente legato ai suoi sofferenti stati emotivi e psicologici. L'idea iniziale non era infatti quella di fare un film sull'incontro con una piovra. Non era forse nemmeno quella di produrre un documentario naturalistico, come pure Craig era abituato a fare. Ma guarire, provando a ritrovare l'armonia con la natura. Diventando cioè parte di un ambiente che per noi altro non rappresenta
che quel continuum, appunto, ovvero quello spazio e quel tempo della creazione. Per poter lavorare cinematograficamente sul contatto con una piovra, che pure è avvenuto in modo sorprendente, Craig si è fatto aiutare da altri operatori. A questo film infatti hanno lavorato molti professionisti,
specialmente nell'ultima fase, quando si sono aggiunti scienziati ma anche esperti di narrazione cinematografica.
La soluzione narrativa della “fiaba” è stata trovata solo alla fine del lungo processo di ricerca, di comprensione e creazione, per dare forma alle centinaia di ore di riprese realizzate con telecamere diverse e da persone diverse nel corso di dieci anni. Immagini, queste, che non sono relative solo al rapporto tra l'uomo e la piovra, ma all'esplorazione dell'intero ambiente subacqueo, al suo avveramento maturato nel corso di un tempo lungo. Immagini alle quali bisogna pur riconoscere una verità irriducibile. My Octopus Teacher sarebbe stato certamente un film di finzione se fosse stato davvero girato in un anno come racconta la “fiaba”. Se il tutto avesse rispettato fedelmente la verità di una fiaba, appunto. Invece la forma del film scricchiola proprio perché non sta completamente al gioco della fiaba. Viceversa risponde alle istanze di un
processo di creazione che ha stimolato, contemporaneamente, varie dimensioni del reale, compresa quella della fantasia. Il film compiuto recepisce e custodisce le geometrie, complesse, della sua creazione, il farsi lento del rapporto tra il suo artefice e il resto del mondo.
My Octopus Teacher si presta a diversi tipi di letture e offre spunti di riflessione sulla forma, o le forme, del documentario contemporaneo che sta conquistando importanti spazi nel sistema del mainstream. Rimane però importante, in conclusione, riportare all'attenzione di tutti l'impressionante evoluzione del linguaggio cinematografico documentario sollecitato dalle opportunità offerte dall'attuale sistema industriale globale. Casi come My Octopus Teacher ci devono far riflettere seriamente anche sulla necessità, per esempio, di individuare nuovi criteri di valutazione di un progetto, nuove figure professionali per il suo sviluppo, nuovi approcci alla costruzione dei team creativi, nuovi approcci alla comunicazione e alla promozione di un film, e sulla necessità che tutto il sistema si doti di strumenti per poter investire con convinzione e visione, padroneggiandone la complessità ma anche la potenza, sul processo creativo di un film documentario. Perché oggi il rischio vero è quello di ritrovarsi con chi, prima di ogni cosa, cerca la fiaba.
Pinangelo Marino